Marco Saya

Un passato da informatico e una vita parallela presente che trascorre tra un grande amore per il jazz, la scrittura poetica e una neo casa editrice. Sono nato a Buenos Aires da papà siciliano e mamma romagnola. A tre anni sono stato dirottato a Rio de Janeiro per 5 anni. Quando sono arrivato a Milano parlavo solo lo spagnolo e il portoghese, l’italiano lo masticavo a malapena tanto è vero che una “simpatica” maestra mi voleva cacciare dalla scuola e, poi, come se non bastasse, ero anche un maledetto mancino extracomunitario, così mi apostrofava! Durante questi lustri, dopo il diploma al liceo classico Giovanni Berchet e una lunga frequenza universitaria presso la facoltà di Ingegneria Elettronica mi sono dedicato per anni al jazz come chitarrista professionista, alla poesia con diverse pubblicazioni e collaborando con diversi siti letterari. Adoro leggere e ricercare la caratterizzazione nella scrittura e questo sarà anche il mio obiettivo come editore, pubblicare ciò che mi sembra degno di nota nell’articolata partitura del versificare poetico.

http://www.arcafelice.com/lecollane.htm

http://edizionilarcafelice.blogspot.it/2011/12/lunedi-12-dicembre-2011-presso-il.html

http://edizionilarcafelice.blogspot.it/2012/02/marco-saya.html

http://www.puntoacapo-editrice.com/

Recensione a cura di Luigi Metropoli

«… e i luoghi di concentrazione nell’era democratica»*: Situazione temporanea di Marco Saya.

Un qualsiasi libro che si apre con una domanda – anche di poesia – dovrebbe quanto meno lasciare supporre un tentativo di risposta, sapendo benissimo che oggi la risposta è precaria, è ‘temporanea’, non racchiude in sé la verità. Marco Saya esordisce con un «dove vai?»: a chiederlo era la madre. «Ancora non so», dopo vent’anni è la sola risposta che il poeta sa dare. Beninteso, qui non c’è nessun compiacimento nel crogiolarsi in istanze nichilistiche. La raccolta poetica di Marco, argentino di nascita, milanese di adozione, intesse un disegno complesso per aggirare luoghi comuni, incasellamenti, categorie, riuscendo sempre con un gioco di prestigio a rimandarti più in là, a slittare di continuo. Quell’«ancora non so» è una cifra stilistica e non una posa. È un temporeggiare che fa dell’ironia la strategia (più che l’artificio) retorica che regge l’impianto dell’intero libro. Non può ancora rispondere Marco perché la quotidianità (che quasi può tramutarsi in quella quotidianeità, come l’ipostatizzava Dario Bellezza) ha nella sua routine una variazione sistematica e inafferrabile (come in un ritmo jazz che non nascostamente è la partitura da cui Saya trae ispirazione per i suoi versi), è preda di una cronica casualità che pure si ripropone ad ogni passo. Il libro si legge quasi come un romanzo, è un’epica contemporanea della città di Milano (ridotta a larva ectoplasmatica di se stessa, fino ad un’invisibile ed impossibile città calviniana: Milania), un’epopea di un uomo che si aggira tra le sue strade e osserva i passeggeri dei tram, altri che si affrettano nei pressi di piazzale Lodi, altri ancora che freneticamente acquistano all’Esselunga. Si legge di una città che fatica a comprendere l’accoglienza, che si sorprende a vedere una donna col burka che attraversa una strada a braccetto con una signora elegante ed evidentemente appartenente ad una classe sociale elevata, che si concentra unicamente a produrre vuoto, affaccendata a guardarsi la punta delle scarpe. Nessun compiacimento, si diceva, e contestualmente nessun volontarismo ideologico. Non c’è socialismo che tenga nelle impietose (ma anche ironiche, di un’ironia amara, ovviamente) pagine di Situazione temporanea. Tutto è frammentato, ognuno è un atomo privo di centro e di identità, tutti accomunati solo da un senso di estraneità che rasenta la schizofrenia: « l’altro giorno ho incontrato un albanese/ mi ha chiesto se avevo/ da accendere/ voleva parlare/ abbiamo parlato/ nella nostra diversità/ avevamo qualcosa/ da dirci». Eppur tuttavia si fa critica sociale con le armi che si possiedono. Marco Saya è poeta civile, senza spiattellarlo in faccia ai suoi lettori. Sa esserlo sottilmente, nell’unico modo in cui si può esserlo. Adotta il jazz come metro, anziché una cadenza lineare, scrive un romanzo di frammenti e di associazioni di idee, osserva quanto accade, partecipando dell’accaduto, ma conservando un’adeguata distanza critica, registra ma non supinamente. La sua scrittura è una scappatoia dagli automatismi della contemporaneità e sa esserlo con una leggerezza disarmante: il gergale non si accosta alla citazione colta per puro sfoggio letterario o per creare un tutto indistinto, utile solo a chi delle parole non sa che farsene. Piuttosto il pastiche linguistico è dosato con grande perizia: tutto è camuffato all’interno di un tono che si tiene volutamente nella mediocrità. Saya sembra costruire trabocchetti nella costruzione del verso (più che nel lessico), giocando con la sintassi così come Jaques Tati avrebbe costruito le sue gag al cospetto della grottesca modernità: insinuandosi negli interstizi delle frasi (più che delle parole), nei modi di dire comuni, decomponendoli, decontestualizzandoli, producendo un esilarante effetto straniante, una sorta di reazione chimica come all’incontro appunto di Monsieur Heulot con gli emblemi urbani della nuova metropoli. Ogni verso è in sé concluso e quasi autistico, per poi scontrarsi casualmente con il successivo. L’effetto è esilarante e nello stesso tempo amaro: «accado nel magma del passaggio./ siccome disturbo nel desueto divorio/ punta i gomiti quello che non ha il limite,/ così per caso, un bar vale l’altro,/ il dispetto sta nella resistenza,/ il cablaggio ci fortifica/ sino a esaurimento scorie». Tuttavia l’aderenza della lingua al reale è massima, tale, nel contempo, da sembrare materiale da costruzione e da restituirti intatta un’immagine dinanzi agli occhi, tramite pochi brevi segni: «quanti fili per la città/ grovigli muti/ boccheggianti dai finestrini/ orecchie incollate a pacemakers/ detriti di comunicazione/ rovinosi affanni/ appannati tra vitrei stagni/ come oblò obliati»; massimo è il grado allegorico che ne deriva: il parlare di blues, di jazz, di Miles Davis per parlare d’altro, di quanto orripilante sia diventato l’uomo.

* dal brano Trafitto dei CCCP (1985)

Luigi Metropoli è nato nel ’79 a Nocera Inferiore (SA). Si è laureato nel 2003 in Lingue e letterature straniere all’Istituto Universitario Orientale di Napoli, con una tesi su Andrea Zanzotto. Ha conseguito nel 2008 un dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università degli Studi di Padova, con un lavoro sulle poesie e canzoni del poeta napoletano Rocco Galdieri. Gestisce lo spazio personale http://www.vocativo.splinder.com, scrivendo principalmente di poesia, cinema, politica. È nella redazione del blog di (divulg)azione poetica LiberInVersi. Suoi scritti di letteratura, interventi, recensioni compaiono in volumi, riviste specialistiche e siti internet. È stato tra i curatori del libro Leggere variazioni di rotta. 20 poeti dal blog LiberInVersi, Le voci della Luna, 2008. Collabora con il semestrale «La Mosca di Milano».

Recensione a cura di Mauro Ferrari

Poeta migrante, anzi in un certo senso immigrato; spaesato, a modo suo flâneur in una Milano postmoderna del monologo più che del dialogo, Marco Saya giunge alla sua prova più alta con questo Situazione temporanea che ci pare un libro di notevole compattezza espressiva ma anche ricco di variazioni sul tema, strati e pieghe: un libro anarchico nelle movenze espressive ed intrinsecamente politico nelle tematiche, le quali ruotano attorno al macrotema della città e del vivere contemporaneo.
Il verso libro di Saya è veramente libero da qualunque condizionamento metrico, per cominciare: se è vero che “nessun verso è libero che chi vuol fare un buon lavoro”, nella frase poundiana, è anche da sottolineare che Saya è poeta modernissimo, con una forte attrazione per il jazz e la musicalità intrinseca del parlato. Una musicalità che si offre come affabilità, apertura verso l’espressione di sé, anche molto diretta ed esplicita, insomma tutta denotata, ma che rifiuta di cadere nel biografismo. Il frammento, in Saya, è piuttosto una condizione ineludibile che non permette alcuna ricomposizione: “‘Dove vai?'” mi chiedeva mia madre / solcata dalle rughe della paura, / “‘ancora non lo so'” (p. 7) sono i versi di incipit della raccolta, e le danno il La aprendo a un mondo di “grovigli muti” (p. 9), inquilini anonimi (p. 10), prostitute, extracomunitari, voci fuoricampo e degrado: questa Milano è una città ripresa con il gusto della rapsodia – e l’accenno alla Rhapsody eliotiana (ma anche ai tremendi Preludes) – si veda Accelerazione/decelerazione in 7/8 (p. 33).
L’esperienza, l’Erlebnis, non si fa ontologia: quella del poeta milanese è quindi una poesia tutta in orizzontale, dominata dall’attraversamento di spazi di nessuno (L’assenza / del passo, / indifferente / nella direzione”, p. 43) in cui la parola sembra sempre ricadere su di sé, non riuscire a descrivere nulla né a comunicare nulla se non una continua insuperabile alienazione. Ne è un esempio il montaggio di piano sequenza della eponima Situazione temporanea (p. 35), in cui il punto di vista è quello dell’occhio, in una temporaneità che indica provvisorietà, fluido divenire, attraversare.
Certo, per questa poesia si può usare per l’ennesima volta, e a ragione, l’aggettivo “Postmoderno”; ma l’elegia per una città anni Sessanta, o persino per un ritorno all’infanzia idilliaca (citiamo la storia inizia indietro, p. 73, uno dei vertici della raccolta) si coniuga con la sofferenza di fronte alla bruttura, e l’elegia diventa nota di ribellione, ricerca di senso: tutto questo è lontano anni luce dalla gioia anarchica postmoderna, del bricoleur che con l’eliotiano “heap of broken fragments” ha imparato a giocare, decostruire un mondo invivibile e i suoi testi, costruire realtà alternative e “quasi vivibili”. Saya sa che “ci ingrigiamo allo stesso modo” – sia nella “Milano. / oggi” (p. 14) che dovunque e comunque; e sa che qui l’Essere è un accadere quasi insensato nell’assenza di un progetto ontologico. “Accado nel magma del paesaggio” dice un verso altissimo, di quelli che davvero la poesia spara nel nulla per squarciare le tenebre.
Allora la libertà del jazz, la creatività del chitarrista che inventa tutto dal nulla indicano non tanto una via uscita – che non c’è – bensì un modo di essere, di fare resistenza.

Mauro Ferrari (Novi Ligure 1959) ha pubblicato le raccolte poetiche: Forme (Genesi, Torino 1989); Al fondo delle cose (Novi 1996); Nel crescere del tempo (con l’artista valdostano Marco Jaccond, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2003); Il bene della vista (Novi 2006, che raccoglie anche la precedente plaquette). Quest’ultima raccolta è stata recensita da critici come Giorgio Luzzi, Giancarlo Pontiggia, Umberto Fiori, Fabio Pusterla, Luigi Fontanella, Alberto Toni, Tiziano Salari e molti altri. Ha inoltre pubblicato una serie di saggi di poetica dapprima apparsi sul quotidiano alessandrino Il piccolo (Poesia come gesto. Appunti di poetica. Novi 1999); i suoi saggi e riflessioni di poetica, compreso il libro precedente, sono ora raccolti in Civiltà della poesia (puntoacapo, Novi 2008).

Numerose le sue partecipazioni ad antologie e sillogi, tra cui l’antologia fiamminga della poesia italiana contemporanea Het stuifmeel van de sterren (Il polline delle stelle, a cura di Gemain Droogenbroodt, Point, Ninove 2000). È incluso con testi inediti nella monografia sulla poesia italiana contemporanea (n. 110) della rivista francese Po&sie, nell’Antologia della poesia ligure Voci di Liguria (Manni, Lecce 2007), in Vicino alle nubi sulla montagna crollata (by L.Ariano and E.Cerquiglini, Campanotto, 2008) e in molti altri lavori antologici.

Come critico ha collaborato all’Annuario di poesia Castelvecchi e si è interessato con saggi, recensioni e interventi a molti poeti contemporanei, con particolare attenzione alle ultime generazioni. In collaborazione con Alberto Cappi ha curato L’occhio e il cuore. Poeti degli anni 90, antologia dedicata alla poesia delle ultime generazioni (Sometti, Mantova 2000); ha collaborato alla silloge critica Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei (Bocca, Milano 2004); ha curato la sezione inglese dell’antologia della poesia europea La voce che ci parla (Bottazzi, Suzzara 2005). È Presidente della Giuria nel Premio “Città di Tortona” (I edizione 2008), nella cui giuria figurano Giancarlo Pontiggia, Franco Contorbia e altri. È membro della Giuria del Premio letterario “L’astrolabio” (Pisa) e del “Guido Gozzano” di Terzo d’Acqui (AL). È Presidente della Fiera dell’Editoria di Pozzolo (II edizione, 21-22 giugno 2008).

È stato redattore della rivista milanese di poesia e filosofia margo e de L’altra Europa (Costantino Marco editore, Cosenza) e fino al 2007 direttore della rivista letteraria La clessidra, da lui fondata nel 1995. Nel settore dell’anglistica si è interessato di Conrad, Tomlinson, Hughes, Bunting, Hulse, Paulin e diversi altri poeti contemporanei. Suoi testi e interventi sono apparsi sulle maggiori riviste letterarie, fra cui Altri termini, Atelier, clanDestino, Coscienza storica, Erba d’Arno, Esperienze letterarie, Galleria, Graphie, Hebenon, Hortus, Il Cobold, Il lettore di provincia, La Rocca Poesia, Poeti e poesia, Quaderno, Steve, Testo a fronte, Testuale, Versodove, Zeta e, all’estero, Y.I.P. – Yale Italian Poetry, Yale Poetry review, Serta, Gradiva, Meja Ponte (Brasile), Po&sie (Francia), Cuadernos del matematico e Empireuma (Spagna, trad. di Emilio Coco).

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Ci sono poesie qui che sono esplicitamente ‘solfeggi’, dove il tempo batte con il verso: la parola si ritaglia nel tempo esistenziale un suo tempo musicale, frastagliato e ritmico, incalzante e percussivo. Ma poi anche questa volta è proprio nelle pause, anche in quelle della musica, che la realtà accende attraverso il dettaglio più banale la sua suggestione simbolica, che l’occhio (e il cuore) del poeta intercetta. ( Roberto Caracci )

Poesia metropolitana, milanese si potrebbe definire, in quanto Milano ne è l’ambientazione principale. Ma anche poesia della contemporaneità malata, della visione di una crisi epocale, con testi che oscillano tra il realismo più semplice e diretto, e metafore lucidamente allusive, costruite con simboli e correlativi oggettivi di grande impatto. E’ la poesia di Marco Saya che ha intitolato la sua ultima raccolta Situazione Temporanea, probabilmente alludendo alla condizione di precarietà dell’esistenza nel panorama contemporaneo. ( Marco Tabellione )

La poesia, in Situazione Temporanea, segue un po’ il ritmo di un concerto improvvisato: pratica difficile e adatta solo a chi dispone di una mano e di un orecchio sempre all’erta. E un concerto, il libro di Saya lo contiene davvero. Si intitola concerto in minuscolo punteggiato, testo che idealmente prosegue con una serie di solfeggi, pause, accelerazioni e decelerazioni, e addirittura riff. ( Paolo Valentino )

Altre recensioni:

http://www.libriconsigliati.it/2010/11/situazione-temporanea-di-marco-saya/
http://www.ilrecensore.com/wp2/2010/06/situazione-temporanea-di-saya/

http://www.mangialibri.com/node/8359

Raccolta Vincitrice della X Edizione del Premio Carver per la sezione poesia 2010
http://www.prospektiva.it/carver.htm

Raccolta vincitrice della XXIV Edizione del Premio Nuove Lettere 2009
http://www.culturacampania.rai.it/site/it-it/Almanacco_della_Cultura/Eventi/eventi/lettere.html

Segnalata al Premio Montano 2009:
http://www.anteremedizioni.it/xxiii_edizione_opera_edita_poeti_menzionati_segnalati_finalisti_e_vincitori

http://www.anteremedizioni.it/montano_edizioni_esiti_22_edizione_una_poesia_inedita

http://www.anteremedizioni.it/xxiv_edizione_premio_lorenzo_montano_esiti_poesia_inedita

http://www.anteremedizioni.it/montano_xxi_singola