di Marcello Buttazzo –
Cristo si copre gli occhi
perché non vuole vedere
gli orrori che ha creato suo padre.
Lui che è anche finito sulla croce
senza la parola di conforto di nessun dio
ha buone ragioni per farla finita
con le ferite aperte nel suo costato.
Èappena uscita la raccolta di versi dal titolo “Libro delle bestemmie” (Marco Saya Edizioni) di Nicola Vacca, poeta, scrittore, critico letterario, opinionista. Un volume originale, di forte impatto, che si legge come un continuum. Nicola Vacca è un intellettuale rigoroso e libero, un poeta che fa sanguinare il verso e lo fa fiorire di nuove aurore sorgive. “Libro delle bestemmie” è un canto potente contro le ipocrisie, contro le viltà, contro i facili accomodamenti del pensiero pavido e pigro. “Libro delle bestemmie” è un ininterrotto canto di libertà e di consapevolezza, rivolto ad una divinità crudele che non sa capire gli uomini e le donne. Vacca è sovente crudo nell’evocare le illusioni d’un dio (rigorosamente con la minuscola nei suoi versi), “che esiste, ma non c’è”. La requisitoria contro Dio è implacabile, perché dalla creazione fino ad oggi tirando le somme non ha fatto un buon lavoro. Il “Libro delle bestemmie” s’apre con versi fulminanti e con un omaggio a Carmelo Bene, il quale ebbe a dire: “qui c’è puzza di dio”. “Cresce il numero dei devoti/che portano dio sulla bocca/perché hanno paura/di ciò che troveranno/quando chiuderanno gli occhi/”. Un Dio che sembra nato dalla paura che l’uomo ha di perire. E così l’umanità si costruisce le sue figure sacre da venerare. Vacca è accusatorio non solo nei confronti d’una divinità-simulacro, ma soprattutto verso quelle persone che barricate nelle chiese, davanti ad un confessionale, chiedono l’assoluzione, “a un dio che non è mai sceso quaggiù”. Riferimenti filosofici e letterari di Nicola sono Nietzsche, Cioran, Bufalino, Pavese, che compaiono nelle epigrafi di apertura. E sappiamo quanta cura e devozione intellettuale, negli anni, Vacca abbia dedicato alla divulgazione di Emil Cioran. Vincenzo Fiore scrive, ad un certo punto, nella postfazione: “Ne è consapevole, in fondo, anche il poeta Nicola Vacca del fatto che la morte di Dio non è ancora un evento di massa, ma, nonostante ciò, nei suoi versi spietati non c’è assoluzione per qualsiasi forma di catechesi”. Nicola Vacca accusa Dio di aver taciuto sugli orrori della storia, di essersi assentato, di prendere in giro gli uomini, che hanno paura di tutto, di vivere e soprattutto di morire. Nicola denuncia la “vigliaccheria” del silenzio del divino. Parimenti, il poeta è particolarmente inesorabile nel far balenare la “vigliaccheria” dei devoti. Che non si salveranno (nemmeno loro), perché indossano il divino come paracadute. Occorre, altresì, aggiungere che qualche volta l’immagine divina per certuni è un feticcio di convenienza: c’è chi crede non per convinzione, ma per salvarsi la vita, per avere custodita la morte. Sempre nella postfazione Vincenzo Fiore sostiene: “A una prima lettura le pagine appaiono blasfeme, le parole crude, sembra quasi che il poeta voglia vendicarsi di chi, nei secoli, ha perpetuato in ginocchio la bugia più grande”. È vero, di certo, la parola perdono è bandita da questi versi, ma la raccolta il “Libro delle bestemmie” scorre come un fiume in piena, rompe gli argini della insincerità, e fa tralucere, ancora una volta, la poetica vibrante e libera di Nicola Vacca.
Tutti creperemo
fatevene una ragione
presunti immortali che alzate la voce
e vi sentite sempre migliori degli altri.
Tutti creperemo
anche quelli che ogni giorno
si sentono miracoli viventi
e sono sempre i primi a giudicare
la mediocrità degli altri
perché la loro non è mai in discussione.
Marcello Buttazzo
So che se fossi…
internato
vorrei con me
un libro di poesia e
l’Arte della fuga
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un insieme di incastri
a volte la musica
un maestro qualsiasi
un fine meccanico
e mentre l’uno supplica
sensibilità,
chiede di agire senza
disattenzione
l’altro ha la chiave in mano,
e forte cristeggia
se dopo tanto sbattere
si svita un bullone
è tenero e sublime
il suono liberato
della disperazione
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sedicesimo in levare-
semiminima-
croma respiro sedicesimo-
semiminima-
croma
e così ad libitum
è il canto
della tortora
il triste congedo
d’ogni tortora al mondo
in alto il predatore
immobile nel cielo
è stato disturbato
dalle giravolte dei gabbiani
ora sbatte le sue
ali e scappa battuto
quanta libertà nel
battito d’ali della
farfalla muta
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È qui, in questa macedonia
nel caos dei suoi acini
nel brodo dei suoi succhi
nelle sue fermentazioni,
è qui che trovo la pace
delle mie canzoni
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sotto i lampioni spenti del mattino
un vento caldo d’attesa disturba
e lene il possesso d’un sole sordo
pallido senza nuvole
sotto i lampioni nel silenzio passano
padroni e cani al guinzaglio – abbaia
e sbadiglia nel mattino la noia
di non averti
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Da Nell’orto chiuso di Giuliano Raimondo, al suo esordio poetico. Giuliano è uno splendido e affermato contrabbassista jazz, e la musicalità dei suoi versi si identifica con il ritmo sincopato della sua estesa partitura.
Assioma (il tempo) della televisione
Onore ai soldati
in punto di morte.
In alto bandiere. La patria. L’amore.
Che pensa il soldato in punto di morte
la donna, la madre un ricordo l’infanzia,
è pentito il soldato in punto di morte
non ha fatto niente e nulla è il suo cognome.
La piastrina con la composizione, il braccialetto
con il nome,
quanti anni ha il soldato in punto di morte
il compagno l’efficienza il codice la paura,
tutto questo è il soldato in punto di morte?
Che sente il soldato in punto di morte
l’acciaio della pelle il carro armato delle scarpe,
come cambia la lingua in punto di morte
torna la madre il suono lo tocca.
Soldato è pagato sotto il cielo di piombo.
Noi tornavamo a casa a piedi la mattina presto
c’era una brezza leggera nell’aria di Roma
e nessuna traccia di esperimenti radioattivi
nel cuore il ricordo degli amici, la festa,
voi passavate con automobili adatte e già le rotaie
del tram da attraversare
vi esponevano una prima domestica difficoltà.
Il corpo del soldato in punto di morte
la massa che cade la testa trafitta
dal crocifisso dal cielo azzurro della finestra.
I soldati partono ed è punto di morte.
Da PESARE AFFONDARE di Paola Zampini – Collana Sottotraccia diretta da Antonio Bux
Non so se apro i miei occhi o i tuoi, illusi
di aver posato appena i piedi ai piedi
del letto, se le mani che non vedi
sfiorare mani nei cassetti chiusi
tentoni scopriranno gli altri usi
del silenzio – lo specchio che ora assedi
col mio fiato, la sete per cui cedi
a labbra fredde altri baci confusi –,
se il vetro è l’aria che respireremo
insieme o l’unghia dura che ricuce
col filo delle ciglia i nostri occhi
al risveglio, per odio della luce,
del riflesso spezzato come un remo
attraverso le gocce in cui trabocchi.
Da GLI OCCHI CHIUSI E LO SPECCHIO di Sergio Cicalò – Collana Sottotraccia diretta da Antonio Bux
Domenica tra i banchi delle chiese
La domenica è il giorno
in cui dio si riposa.
Lo chiamano Signore
i devoti che nelle chiese sperano in lui.
In religioso silenzio lo adorano
come il salvatore del mondo
l’unica via da seguire per non morire dannati.
La messa finisce
anche oggi credono di andare in pace
in una domenica qualsiasi
in cui dio è solo
con il suo sconforto.
Dal Libro delle bestemmie di Nicola Vacca
26 aprile 1986
Aprile è un mese crudele, se nel buio
esplosioni boati laceranti sirene
bucano il sonno di martiri futuri
un occhio spalancato sul tetto scoppiato
del quarto reattore fondendo
acciaio cemento sbriciolando
pareti finestre infrangibili
sfondando porte blindate
fuochi artificiali assassini
scintille come stelle a ghirlanda
colonne radioattive di luce iridescente
vapore e grafite nell’aria
odore di brucio di morte
sbianca la notte infuoca il cielo
colpevole terrore
procedure violate da nascondere
sacrificio di eroi immolati
per spegnere bloccare
la catastrofe
camminano in fila ectoplasmi evacuati
pelle squamata labbra riarse
volti ustionati vista annebbiata
tremanti innocenti ubbidienti
attenzione attenzione compagni
sarà per poco forse per sempre
addio alle case addio al paese
mentre bianca la nube si espande
lentamente si alza si infiltra
in tombini fessure spiragli
contamina acque di fiumi di laghi
inquina sorgenti avvelena terreni
impregna radici nei boschi
dilaga incolta sterpaglia
erbaccia impazzita nei prati
sementi distrutte ortaggi deformi
ululati muggiti di bestie malate
il sangue di molti appestato
i feti abortiti
annerite di fumo
chilometriche dita
artigliano l’etere molle
lo graffiano con atomi sporchi
spargendo energia miscelata
effluvi silenti letali
in spazi sguarniti
aldilà di frontiere
prodotto di scienza
incoscienza
da guerra industriale
minaccia incurabile eterna
ammorbante vendetta
del nucleo squarciato
tombale.
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“Li ho letti d’un fiato, con il cuore alla gola, ripercorrendo decenni in un rapidissimo volo, guardati da lontano e insieme da vicinissimo, con uno sguardo che continuamente svela e parla all’anima. Lo sguardo che vede l’intensità umana fra le righe della Storia, come sapeva fare forse solo Elsa Morante. ‘Il personale è politico’ si diceva nella mia generazione. Ma ancora di più è la Storia ad essere personale. Con brevi pennellate così semplici, con parole così semplici, e Alida ci racconta tutto. Ci sembra stia dicendo tutto quanto c’è da dire. Abbracciando in poche pagine semplicissime una vita, una generazione, un mondo tormentato. Non è questa, forse, poesia vera?”
Carlo Rovelli